Ottant'anni fa il Livorno dei miracoli metteva alla frusta il Grande Torino

25.04.2023 17:22 di  Marco Ceccarini   vedi letture
Il Livorno 1942-43
Il Livorno 1942-43
© foto di Wikipedia

Livorno – Era il giorno di San Marco del ‘43 e la guerra infuriava alle porte di casa. Italiani e tedeschi stavano iniziando a cedere, dopo che l’armata rossa, a febbraio, aveva annientato a Stalingrado la sesta armata tedesca e le altre forze dell’asse. Il corpo di spedizione italiano in Russia aveva iniziato la tragica ritirata, dopo che l’Unione Sovietica aveva rotto il fronte italo-tedesco prendendo il controllo del Don e del Volga. Era stata, quella, la prima grande sconfitta militare della Germania nazista e dell’Italia fascista. Anche in Africa, dove gli alleati erano guidati dalla Gran Bretagna, italiani e tedeschi stavano perdendo terreno. Le aviazioni americana ed inglese avevano già bombardato alcune città italiane e tedesche. Il cammino che avrebbe condotto alla sconfitta del nazifascismo era ancora molto lungo ed incerto. Ma gli osservatori non asserviti al regime, nonostante la propaganda fascista, capivano che la guerra era segnata. Mezzo mondo, dopo l’attacco tedesco all’Unione Sovietica e giapponese agli Stati Uniti, si stava schierando dalla parte degli alleati contro Italia, Germania e Giappone. Ai primi di aprile perfino la lontana Bolivia era entrata in guerra. Gli scioperi che ai primi di marzo avevano scosso l’Italia del nord, in particolare Torino, avevano mostrato che la crisi economica dovuta al conflitto aveva messo in ginocchio il sistema produttivo nazionale aprendo anche significative crepe nel regime fascista, dato che quegli scioperi, che il regime non era stato in grado di arginare, erano stati organizzati dagli antifascisti.

Il contesto era quello di un paese in guerra, con risorse sempre più limitate, con prospettive ancora più limitate, dove lo sport e in particolare il calcio dovevano rappresentare e rappresentavano la valvola di sfogo massima per un popolo stanco ed affaticato, martoriato da lutti e miseria, che nel giro di qualche anno era passato dall’esaltazione di un’Italia immaginata potente, ricca e al comando del mondo, alla cruda realtà di una nazione povera ed impoverita, prossima al tracollo, senza libertà e speranze.

Il Livorno, nella stagione sportiva 1942-43, era al suo nono campionato di Serie A da quando tredici anni prima era stata istituito il girone unico. Ventitré anni prima, al termine della stagione 1919-20, gli amaranto si erano aggiudicati il titolo di campione dell’Italia centro-meridionale ed erano stati sconfitti nella finalissima per il titolo italiano dall’Internazionale a Bologna. Ma quella era un’altra storia e si sapeva che era una storia difficilmente ripetibile. Il miglior piazzamento ottenuto nella massima divisione dal ‘29 in poi era stato l’ottavo posto conseguito nell’annata sportiva 1933-34.

Il Livorno proveniva da un torneo piuttosto travagliato, chiuso al quattordicesimo e ultimo posto utile per non retrocedere in Serie B. Nel corso dell’estate, per migliorare la rosa, il presidente Bruno Baiocchi si era indirizzato verso elementi giovani e nella maggior parte dei casi prelevati dalle serie inferiori. Il solo Pietro Degano era stato acquisito da un club di Serie A, la Fiorentina, dopodiché tutti gli altri, compresi quelli che si sarebbero affermati tra i migliori, erano arrivati da formazioni di Serie B e C: Ermelindo Lovagnini dallo Spezia, Renato Raccis dal Prato, Ostilio Capaccioli dal Pisa. In panchina, al posto dell’ungherese József Violak, meglio noto col nome italianizzato di Giuseppe Viola, era stato ingaggiato un ottimo allenatore, Ivo Fiorentini, che tuttavia aveva la nomea di quello che aveva sprecato la grande occasione l’anno prima con l’Ambrosiana, nuovo nome dell’Internazionale, da cui era stato esonerato.

Nonostante gli sforzi di Bruno Baiocchi, secondo cui la squadra allestita era più che buona, tanto che aveva fissato perfino il premio di un milione per la vittoria del campionato, gli amaranto alla vigilia non godevano di alcuna considerazione. Per fare un esempio, nell’estate del ‘42 il periodico Il Calcio Illustrato, presentando le varie formazioni di Serie A, aveva definito il Livorno una “squadra mediocre”.

Non suscitò più di tanto clamore la partenza a razzo degli amaranto. Si diceva che prima o poi gli uomini di Ivo Fiorentini avrebbero cominciato a perdere. Eppure se la vittoria interna contro il Venezia poteva starci, già quella al Filadelfia sul nascente Grande Torino, una squadra che metteva insieme campioni del calibro di Giuseppe Grezar, Ezio Loik, Valentino Mazzola, Guglielmo Gabetto, Pietro Ferraris, Romeo Menti, Franco Ossola, solo per citarne alcuni, avrebbe dovuto mettere in guardia. Invece gli addetti ai lavori continuavano a dire che si trattava di un fuoco di paglia. Il successo contro il Liguria (club progenitore della Sampdoria, ndr) apparve anch’esso naturale. Ma quando il Livorno vinse in scioltezza sul campo dell’Atalanta dopo che la trasferta era stata funestata perfino da un bombardamento inglese che aveva costretto la squadra a passare una notte in bianco ed a raggiungere lo stadio di Bergamo in ritardo e con mezzi di fortuna, tutti dovettero prendere atto che quel gruppo di ragazzi con la maglia amaranto, effettivamente, aveva qualcosa in più.

La striscia positiva era stata interrotta dal Bari, che era riuscito a pareggiare all’Ardenza alla settima giornata. Ma all’ottavo turno, vincendo a Milano contro la forte Ambrosiana Inter, gli amaranto avevano fatto capire, risultati alla mano, che erano davvero una grande squadra.

Campioni d’inverno davanti a Torino ed Ambrosiana Inter, gli amaranto, settimana dopo settimana, si erano resi protagonisti di una cavalcata incredibile sui campi di tutta Italia, oltre che all’Ardenza, fortino inespugnabile che solo la Juventus, quell’anno, riuscì a violare. Avevano preso la testa della classifica al primo turno e l’avevano tenuta fino al ventiseiesimo. La sconfitta sul campo della Roma campione d’Italia in carica, il 4 aprile, aveva però permesso al Torino di sorpassarli in vetta alla classifica.

Quel 25 aprile 1943 rappresentava dunque l’atto finale di un testa a testa straordinario durante il quale il Livorno aveva letteralmente messo alla frusta una squadra di campioni che il presidente granata Ferruccio Novo aveva sapientemente costruito con grande attenzione e molti soldi. Gli amaranto arrivavano alla sfida conclusiva, benché a distanza, dopo aver vinto in scioltezza le due gare successive alla sfortunata partita di Roma, ma anche il Torino aveva fatto sue le successive due partite. Nell’ultimo turno, mentre il Livorno era impegnato in casa contro il Milano, come il regime fascista voleva che si chiamasse il Milan, il Torino era di scena sul terreno del pericolante Bari, dove la formazione locale, se avesse perso, nella migliore delle ipotesi sarebbe andata agli spareggi per non retrocedere in Serie B.

A Bari la partita cominciò con qualche minuto di ritardo. Era, quello, un incontro in cui non era affatto scontata la vittoria del Torino sulla formazione pugliese, che tra l’altro poteva contare su un portiere di prim’ordine come Leonardo Costagliola. Al tempo stesso non era affatto scontato neanche il successo del Livorno sul Milan.

Gli amaranto, sostenuti dal loro calorosissimo pubblico, riuscirono a piegare i rossoneri con le reti di Teresio Traversa, Ostilio Capaccioli e Renato Raccis, chiudendo la pratica in avvio di secondo tempo, dopo che il Milan era addirittura passato in vantaggio con Arrigo Morselli. Il Torino, invece, faticò assai di più. Anzi, dallo stadio della Vittoria, lo stadio barese, arrivavano notizie confortanti. Le folate degli avanti granata si infrangevano sulla linea difensiva dei biancorossi. Quel giorno la squadra locale stava letteralmente tenendo testa ai più quotati avversari e tutto lasciava pensare che la partita sarebbe finita in parità, senza reti, con il Bari salvo e con Livorno e Torino dirottate alla “bella” per l’assegnazione del titolo di campione d’Italia.

Quando all’Ardenza l’arbitro Mario Scotto di Savona fischiò la fine, gli uomini di Ivo Fiorentini fecero un giro di campo per salutare i tifosi e ringraziarli per essere stati così vicini in quel campionato tribolato ma anche esaltante. Gli orecchi erano tutti allungati sulla radio che, all’interno dello stadio, informava sulla partita di Bari. I giochi sembravano fatti. Gli amaranto stavano scendendo negli spogliatoi, già stavano accarezzando l’idea dello scontro diretto che forse si sarebbe giocato a Bologna, quando appresero che a quattro minuti dalla fine della partita di Bari, quindi del campionato visto il ritardo con cui era cominciato quel match, a conclusione di una mischia Valentino Mazzola aveva segnato la rete del successo granata, tra l’altro condannando il Bari a giocarsi la permanenza nella massima divisione, poi persa, con Triestina e Liguria.

Fu un colpo tremendo, un momento triste e drammatico, per i giocatori del Livorno. Per dirla con le parole di Mario Stua, il capitano, “se fossimo andati allo spareggio, ce li saremmo mangiati vivi”. Invece arrivò la crudele notizia. Dalla gioia si passò al pianto, nel vero senso della parola. E fu un pianto amaro, quello degli amaranto, naturale sfogo per aver subito la beffa più atroce.

L’Italia sportiva apprese dalla voce del radiocronista Nicolò Carosio, la sera stessa, che a vincere lo scudetto, il secondo della sua storia, era stato il Torino con 44 punti contro i 43 del Livorno. I granata, con quel titolo, dettero il via all’epopea del Grande Torino. Lo stesso Nicolò Carosio, commentando a caldo l’esito del torneo, volle tuttavia rendere omaggio alla squadra amaranto affermando che se il milionario Torino aveva vinto lo scudetto materiale, il baldanzoso Livorno si era aggiudicato lo “scudetto morale”.

Ancora oggi, ottant’anni dopo, quel secondo posto in Serie A, con il record di vittorie, ben sei, in avvio di campionato, rappresenta il risultato più prestigioso, il momento più alto, raggiunto dalla squadra amaranto. E’ stato, quello, il Livorno dei miracoli che incantò l’Italia in una stagione rocambolesca ed irripetibile. A Livorno accadde qualcosa di unico, una di quelle alchimie che solo lo sport sa creare, con un manipolo di onesti giocatori di pallone che si scoprì un gruppo di campioni. Nessun’altra squadra, in effetti, ha mai messo in difficoltà il Grande Torino come ha fatto il Livorno quell’anno. Nessun’altra formazione è stata in grado di ingaggiare con i granata, negli anni in cui erano considerati la squadra delle meraviglie, un duello così appassionante ed incerto, sopravanzandola per gran parte del campionato, come fece il Livorno nel 1942-43.

Sessantatré anni dopo, al termine della stagione 2005-06, il Livorno ha ottenuto una bellissima sesta posizione, complice anche lo scandalo di Calciopoli che penalizzò svariate squadre, che gli ha permesso di qualificarsi alla Coppa Uefa. Pure quella è stata una bella pagina della grande storia amaranto. Ma anche quella, come la finale persa a Bologna nel 1920, è tutta un’altra storia.